Orbi perché non ci vediamo più. Mancanti, assenti, privi. Orbi di pace, di onore e “di tanto spiro” di manzoniana memoria. Maschere acustiche e fisiche impastate di un’umanità che trasuda amore e tenerezza ma che si passa il testimone del vizio fino a diventare caricatura del dolore e del piacere.
Esseri ciechi che irridono, smorfieggiano, danzano, aspettano il loro turno e si alternano nella fame di relazione.
Così impudichi, sfacciati e s-corpatti da esporsi pubblicamente alla gogna della vergogna di chi non vede con gli occhi e con il cuore.
A parlar male degli uomini (homo sapiens) si fa presto, soprattutto di questi tempi di homo hominis lupus, ma mettere in scena questo senso di fragilità dell’umano, indagare agendo i suoi vizi e debolezze, insomma passare all’azione e rendere per immagini dando forma a queste male-parole, è stato altra cosa. Cosa da ballerini traditori del passo, anche se mai come in questo lavoro ne abbiamo fatti così tanti. Di passi. Fin dai primi giorni di prove ci siamo presi (letteralmente) per mano e non ci siamo lasciati; così stretti gli uni agli altri, più sicuri nel branco, abbiamo socchiuso gli occhi, alzato leggermente il capo verso l’alto e incominciato a camminare, dapprima lentamente poi sempre meno incerti; così come nel quadro “La parabola dei ciechi” di Peter Bruegel, immagine dalla quale volevamo partire per dimostrare, come viene attribuito al pittore stesso, “quanto di equivoco vi sia nell’esistenza umana”.
Abbiamo così costruito il nostro percorso su di una struttura coreografica martellante. Ci siamo accorti, quasi inconsciamente, che stavamo ballando una specie di giga, che è poi una danza-girotondo ripetitiva e ossessiva: sul suo ritmo ipnotico e insistente, abbiamo liberato quelle forme sulle quali si sono poi potuti inerpicare i nostri personaggi. Così è successo che abbiamo provato a chiudere gli occhi per vedere meglio e agito quell’ incessante moto per sentire più forte. Bendati da scotch, deformati da elastici, imparruccati e travestiti, abbiamo stretto più forte le nostre mani girotondine e sentito lo strappo di chi se ne andava in solitudine verso la sua personalissima (e liberatoria?) perdizione. Vagando a tentoni senza troppo capire, siamo andati a sbattere tra gli Scilla e Cariddi del nostro mare tempestoso, disperatamente sempre cercandoci; attraversando con incoscienza e spudoratezza i narcisistici vizi moderni e, senza il dono e il pregio dell’esaustività, anche quelli, di lussuria vestiti, irosi biblici d’archetipiche accidie e invidie. Da orbi. Come la fame, la rabbia e le botte da orbi. Come nel detto: “non vederci più dalla sete, non vederci più dal piangere, dal ridere”. Allora la cecità come metafora estrema ed iniziale di un’impossibilità dello spirito, di un’inaccessibilità dell’anima ad una condizione di purezza così lontana dall’ umano; e così i nostri personaggi, così piccoli e così forse più vicini con le loro piccole disumanità, alla “vera umanità”, alla vera condizione umana di vetta e di abisso; con la loro orbatura dell’animo bagolanti e vagolanti verso potenziali nuove visioni, verso un nuovo impero dei sensi fatto d’olfatto, atto al tatto; udito e ingoiato infine dalla loro ingordigia di fragili e umanissime creature.